La nostra recensione. 1918, ultimo giorno della Grande Guerra: Joe, diciannovenne spinto a imbracciare le armi da sciocco spirito patriottico, viene colpito da una palla di cannone. Conseguenze: perde le braccia, le gambe, il volto, la vista, l’udito, le parole. Tutto. O quasi. Perché in quell’ammasso di carne che rimane, per un crudele scherzo del destino, solo il suo cervello continua a funzionare. Tenuto in vita da macchinari che gli permettono di respirare e superato lo shock dell’essere prigioniero della propria mente, Johnny si aggrappa con forza ai brandelli di una vita che gli apparteneva e che gli è stata strappata via da una cosa che altri, dietro a qualche scrivania, hanno deciso di intraprendere. Senza la possibilità di comunicare in alcun modo col mondo esterno, Johnny è solo: ricordi e nostalgie, talvolta confusi a causa dei sedativi che lo costringono a fluttuare tra momenti di una lucidità più o meno evanescente, si affollano e rimbalzano tra le pareti di una solitudine profonda e inscalfibile, a volte delirante, più spesso dolorosa. E Johnny prese il fucile è il più bel manifesto antimilitarista che si possa trovare in circolazione, una condanna senza appello alla guerra. E’ un romanzo che parla di un’ostinata, a volte addirittura inspiegabile, voglia di vivere, nonostante tutto. E’ una lettura da togliere il fiato, che colpisce nel segno: rabbia e commozione si mescolano ad una speranza acerba, senza forma, amara. Un libro claustrofobico, crudo e violento, scarno nella punteggiatura, dal finale sorprendente e crudele. Consigliato? Assolutamente sì. Senza perdere tempo. Recensione di David